Giulia Niccolai

Introduzione a: mi faranno santo, geiger 1977

Il lettore di questo libro si renderà conto già dal titolo Mi faranno santo che l’”io”, la prima persona presente in quasi tutte le poesie, è in realtà una controfigura, una spalla. Questa prima persona che bestemmia maledice ricorda e racconta sembra tenere un diario delle proprie inspiegabili e incomprensibili emozioni, “parla” a volte come un cantautore, ha momenti di folgorante esaltazione contrapposti ad altri in cui si sente l’essere più beffato del e dal mondo; insomma questo io “vagotonico” cerca continuamente di farsi notare, di accentrare su di sé l’attenzione del pubblico, e finisce per ottenere l’effetto contrario, quello cioè di dar lustro al primo attore – in questo caso il poeta – sempre presente sulla scena ma silenzioso e volutamente in disparte. Non sono certo la semplicità e l’elementarità del linguaggio di Immovilli (linguaggio che erroneamente si potrebbe definire “spontaneo”) a produrre questo sfasamento interno alle poesie, che è invece ottenuto per interposta persona, da un io tanto meticoloso quanto fabulante.

Come scrive Giuliani (1) a proposito dei personaggi del teatro beckettiano che “dicono una cosa o l’altra sapendo in ogni istante che potrebbero dire il contrario o una cosa diversa e sarebbe lo stesso”, qui ci rendiamo conto che per l’autore tutte le parole usate per comporre un testo sono una convenzione accettata in partenza come tale, sono insomma qualcosa di esterno alla poesia che tuttavia si compie e si fa per una sua peculiare e incontrollabile precipitazione chimica.

Cosa sono ad esempio tutti i “mari” (amati, odiati, fottuti, desiderati, “e forse non era Lerici” ecc) che non hanno in realtà alcun rapporto con il vero mare e non sono nemmeno un simbolo? Il testo ci comunica soltanto che la parola “mare” è estremamente importante per qualcuno, e che questo qualcuno viene continuamente deluso: ma da cosa, dal mare? La delusione,allora, ma un tipo particolarmente infantile e cocente di delusione, è forse il leitmotiv presente in quasi tutti i testi. Abbiamo cioè un io adulto (il poeta) deciso a ricordare e vendicare i torti subiti da un io bambino (il lettore) e questa vendetta così a lungo covata si verifica finalmente nella poesia non attraverso l’invettiva ma piuttosto attraverso l’autoironia. Ma qui di nuovo siamo costretti a notare che anche l’autoironia finisce col rimandari a qualcos’altro ancora, la sentiamo insomma come una “ruse”, una scelta consapevole di tipo superstizioso o un antidoto che, se somministrato con sufficiente crudeltà, permette all’autore di fare poesia.

1. Alfredo Giuliani, Le droghe di Marsiglia, Adelphi, 1977.

Marie-Louise Lentengre

Introduzione a:  Parigi e le altre, edizioni del laboratorio, 91

Quell’unico equivoco

La poesia può permettersi tutto. Ci fu un tempo in cui nulla era troppo per lei: assetata di assoluto e di ideale, poteva vivere solo nell’irrequieta cerca di un indicibile, perseguitato anywhere out of the world. Oggi, il suo sguardo non osa oltre il luogo angusto e vago in cui viviamo, mondo inquietante di banalità, misterioso di evidenza, e tanto inafferrabile nella sua materiale esperienza che proprio esso, ormai, è l’indicibile estraneità.

Che un poeta volontariamente rinunci alla sperimentazione fiammeggiante, che scelga la nudità di un linguaggio riportato alle più elementari constatazioni lessicali, che non si dichiari più astuto o più forte delle cose atrocemente stupide che ci governano – la vita, la morte, il tempo che fa, i treni, le strade, le metropoli – tutto questo può essere apparso incongruo nel panorama dei tardi anni 70, quando Adriano Spatola pubblicò nella collana Geiger le prime poesie di Valdo Immovilli con il titolo burlesco e provocatorio Mi faranno santo. Ma forse c’era, anche su quel versante, una sperimentazione vera, nel rischio non piccolo di volersi confrontare con la smisurata impoeticità del quotidiano, per farne comunque un’avventura poetica. Ne andava del soggetto, che non si costruisce fuori di un luogo, né fuori di un linguaggio, e deve accettarsi errante e taciturno se i luoghi più comuni ci sfuggono, se il linguaggio non può più dire niente.

Nella sua introduzione a Mi faranno santo, Giulia Niccolai citava Beckett. A designare nel migliore dei modi l’inquietudine velata di ironia che conferisce la sua autentica profondità alla poesia di Valdo. E potrei ricordare anche certe labirintiche avventure degli eroi di Robbe-Grillet. Infatti, se il poeta ancora una volta ci invita al viaggio, non lo fa per appagare il nostro sogno di un altrove tutto ordre et beauté, Luxe, calme et volupté, ma per farci ritornare su scene che conosciamo benissimo, noi colpevoli ossessionati dagli indizi che ci lasciamo alle spalle, desiderosi di verificare, di rivedere, di riparare l’errore che ci perderà, di mettere ordine, di risignificare le tracce, di correggere i ricordi. La metafora è chiara: si tratta di fabbricare il senso delle cose. Di dirsi in un luogo. Di essere lì.

Quindi, ritorno sui propri passi dalle parti di Parigi e le altre. Il poeta sembra volersi raccontare, parla in prima persona. Del resto, non ci sono anche le altre, gli altri? Altri luoghi, altre città. Altri esseri che gli permettono di individuare “loro”, “noi”, “tu” ? Ma lui non si fida. Certo il mondo è lì, ed egli lo guarda, lo percorre, lo ascolta. E ci sono parole per nominarlo. Può dire il cielo, il mare, Venezia, Parigi, Roma o Lerici. Come pure Renata o Maria, Vincent o Mario. Insomma, quanto basta per fare una storia, con percorsi che si moltiplicano, e tanti fatti minimi, incontri, emozioni, sensazioni. Meditazioni anche, sfiorate dal sarcasmo. Ma i rponomi si trasformano, “io” diviene “lui”, “lei” è una bambina, poi una donna, poi un’altra donna, poi una città, o magari l’una e l’altra. Particolari puntuali, microscopici, alludono alla trama indecisa e mossa di uuna vita che riconosciamo e che pure ci sfugge. E la parola del poeta esita, si disperde in bagliori sovrapposti, in attimi fra loro confusi, briciole raccolte qua e là da una memoria incerta, incapace di riafferrare una differenza di essere tra Parigi e le altre.

Il titolo, del resto, non ci prometteva nulla di buono. Possiamo associare, di seguit, Renata e le altre, tu, lei, noi, io “e gli altri”, nell’ indifferenziazione stabilita da quell’articolo assoluto, privo di ogni complemento svelante. Tutto si mischia e si invischia, città e donna, pluralizzate, sovrapposte, indiscernibili. Non c’è più un nome “proprio” per reimpadronirsi di un mondo che si dissolve in somiglianze: sprazzi di vetri specchiati a Murano, a Parigi ritratti sulla Senna, ovunque riflessi replicati all’infinito da un’acqua sporca e puzzolente, quando tutte le città sono nel loro intimo intimo, la stessa città.

L’unica differenza, ma non è veramente una differenza, è che in una città il nostro eroe ha mangiato dell’uva, in un’altra la pioggia lo ha inzuppato fino alle ossa, e in un’altra ancora cento lire gli sono bastate per tutto il giorno. E se ogni volta che si trova a Parma si prende una multa per il parcheggio, in compenso quando va in Spagna continua a perdere tutto strada facendo …

Alla fin fine, il viaagio è un errare, un “tour” comico e desolante, nel quale si arriva a Venezia di corsa per guardare “en passant” il ponte dei sospiri e l’acqua sporca. Una nostalgia un po’ troppo romantica di acqua sorgiva cede all’ossessione delle acque marce che attraversano le nostre città e rendono vana ogni altra partenza: cosa c’è da fare a Firenze sull’Arno appestato … Meglio scherzarci su e divorare qualche panino bevendo birra sul molo o sulla terrazza di un bar. E per potersi ritrovare, malgrado tutto, nella squallida sovrabbondanza delle cose simili, rimane la possibilità pura e semplice del censimento, che unisce in una stessa intenzione disincantata di presa rapida e globale il gesto del turista – con le dita a segnare le gondole – e le parole del poeta: c’è un castello una chiesa una piazza una fontana …

Che siano immaginari o reali, fatti di gesti o di parole, i nostri sentieri nel bosco cittadino non conducono in nessun luogo, e siamo condannati a smarrirci in quell’unico equivoco appostato dietro l’angolo.

Ma i viaggi di Valdo sono anche un’occasione per guardare il mondo come attraverso i vetri, spesso sporchi e appannati, di un treno di notte nella penombra: il paesaggio allora scorre abbastanza veloce, abbastanza sfuocato perchè il desiderio, nell’oblio delle città confuse, rilanci la “reverie”: Guardo fuori dai finestrini … e potrebbe essere estate.| Così faccio una poesia una poesia che mi faccia: si salgono|stradine … E’ per questa via che il poeta, momentaneamente, si attribuisce un minimo di padronanza sul mondo e su se stesso, come se la poesia detenesse ancora il potere di far significare le cose: e mi invento un settembre| su misura o anche ottobre se voglio, così almeno è chiaro se| cadono le foglie, se ho freddo, se l’umidità mi assorbe| tutto il sole preso in Puglia.

Qui, forse, sta il segreto della poesia di Valdo Immovilli: la scrittura gli permette di trascendere la sua vita, di reinventarla ogni giorno con leggerezza e umorismmo. Una poesia senza vanità, quindi, ma non senza violenza, e con fierezza placcata sul duro legno del reale: sono stao io a scrivere quei nomi sulle panchine.

Marie-Louise Lentengre

Bologna, 24 novembre 1991

Maria Lia Lotti

Introduzione a: L’0ceano e la luna

Dicono che c’è più luce

Queste poesie, ora che sono un libro, vedo che non si possono leggere chiusi in una stanza. Meglio camminando, o seduti sulle colline ai piedi di un albero. Leggendo cominciano ad arrivare gli autunni, e le foglie e gli usignoli. Ci sono tanti di quegli alberi fra queste pagine, e animali e profumi, e vento e vigne e nuvole … che bisogna scrivere dopo, rientrando a fatica nell’emisfero logico che riflette e tiene, dall’altro, quello mistico che abbandona e perde.

Si comincia con una domanda:

Io chi sono, dentro i confini dove respiro.

Ma il verso non finisce neppure col punto interrogativo, che già irrompe un altro stato dell’essere che risponde:

Esisto nel mondo che penso, come l’erba

che non confina col prato,

come foglie che filtrano la luce e vivono di luce.

Ecco, l’andamento di questa poesia è andare fuori sulle colline, lasciare i tempi e i luoghi, perdere gli impegni e le certezze, e governare la mente verso un altrove. Basta uno stelo. E la concentrazione si fa meditazione e cambiamento, la poesia diventa il frutto pregiato della disciplina della mente.

Abbandonare il possesso, l’identità, l’attaccamento, l’avversione … e abbracciare, in quel vuoto, tutto ciò che cade nell’istante, tutto l’orizzonte o una sola foglia rossa dell’autunno.

Niente rumore, appena dei piccoli psssst… nemmeno pensieri, piuttosto sottrazioni, abbandoni, e perdite.

Ma subito l’Autore ci avverte che

non è per andare via

ma per restare più vicino..

Lasciare pesi, zavorre, beni, cose, armadi, elenchi, progetti, calcoli, giustizie. E soprattutto perdere l’orgoglioso e farraginoso IO che ingombra tutto e impedisce ogni amore:

Finalmente sconfitto

finalmente a terra, deluso, disarcionato.

Finalmente tutto è perduto, anche l’orgoglio

anche l’onore.

E io posso finalmente guardarli e riconoscerli

e finalmente amarli.

Allora la perdita diventa guadagno. Etica e letizia della sottrazione. Lasciare tutto il caduco senso dell’Avere per l’infinito leggerissimo Essere. E’ un giro di boa, un prima che avviene oltre il lungo viaggio: l’inizio bambino che cercammo tanto, accade qui, adesso, come un’epifania a un tratto. Allora tutto il complicato percorso che ci ha portato fin lì, si stempera in una parola semplice, cade la neve, da sola, senza manovre, i re magi si inchinano a una stella.

Ed ecco la poesia:

Scrivo una parola.

Come una luna piccola e acerba

in una notte d’inverno.

Come un incontro per poco mancato

un conto perfetto che non torna …

e ci dice lo stupore. La sorpresa di quando si lascia accadere qualunque cosa, una gioia come un disappunto, o un incontro per poco mancato, un conto perfetto che non torna. Semplicemente la poesia lo nomina senza giudizio alcuno, senza lamento, senza sofferenza, senza sospiro. Lascia cha accada in un respiro, uno sguardo, un rispetto immenso, una specie di curiosità sorridente e tranquilla.

Scrivo una parola e la guardo.

Solo in questo sguardo, comincia il grande spettacolo delle cose libere, che come gli atomi di Democrito, scendono dal cielo e costruiscono questo mondo bellissimo. E non c’è mai nulla che manchi, nulla di sbagliato o in più, ma tutto è dono, appartenenza e creazione.

Anche se non trovo le parole,

so che non c’ è nessun errore;

C’è solo una occasione.

Prima o poi ci ritroveremo, tutti

sulla porta di casa, e avremo solamente

un piccolo rimpianto, prima di riconciliarci.

E’ come la prima settimana della Genesi, quando Dio si siede sui bordi dell’Universo e, guardando il pullulare delle cose che prendono forma davanti al Logos, vede “che tutto ciò è buono”. Stupefatto lui stesso, e non meno noi, non più figli di un Dio minore o di un peccato originale, ma tutti uguali, fatti della stessa sostanza terrestre e celeste, cinciallegre, alberi e usignoli…

Ma soprattutto noi:

più alberi degli alberi

più usignoli degli usignoli,

più pecore delle pecore,

più conigli dei conigli.

Ci si può fermare all’ apparenza, alla semplicità, al libero flusso delle evocazioni, delle sensazioni e delle idee, o andare oltre, accettare un compito, un dolce severo compito per la conquista della Libertà, uno spazio oltre l’illusione. E’ un lavoro che fa emergere il profondo Sé, e si trova proprio al crocevia zen del controllo mentale e della fede in questo Sé, giustificata dall’esperienza e dalla lunga disciplina. E’ un lavoro che fa emergere il profondo Sé, e si trova proprio al crocevia zen del controllo mentale e della fede in questo Sé, giustificata dall’esperienza e dalla lunga disciplina.

Così,

Se mai ti capitasse di sentire la mente confusa

se mai ti capitasse di non capire il senso della vita

vieni con me, lasciati andare.

Quando saremo sulla collina la terra ci sarà amica

Vedi, come tutto è infinito?

lasciati andare e ci perderemo,

perché è l’unico modo di ritrovarci

di essere quel che siamo da sempre,

per sempre.

Ci sono mille anni fra il Poeta che guarda una siepe sulle colline di Recanati e questo lavoro di scrittura sulle dolci colline emiliane. Mille anni tra questi due naufragi e questi infiniti.

Là c’era uno spiraglio di dolcezza davanti a una natura matrigna, qui non ci sono porte o fessure da cui entri il mondo ma un continuum fra sé e natura come un tutt’uno; là passato presente futuro e trascendenza, qui il solo istante presente ove abita un dio immanente uguale a sé; là l’immenso e il sublime e la nostalgia, qui il bagliore di un tesoro fra le dita ritrovato e certo; là la sconfinata bellezza della solitudine, qui la sconfinata bellezza dell’amore.

Perciò queste poesie andrebbero avvicinate, certo come un lavoro di stile e di scrittura, ma ancor più come un testo iniziatico, una specie di viaggio – e guida – spirituale.

Stilisticamente il libro è omogeneo, ma non è rintracciabile con certezza una linea logica fra i pezzi, che non seguono un crescendo compositivo, poiché la successione sceglie il procedere naturale degli avvenimenti quotidiani. Ci sono versi e immagini di grande bellezza, e tutto è minimo e immenso come l’oceano e la luna, ma non vi sono stilemi ritmici ricorrenti, o regole a cui l’Autore si rifaccia con preferenze certe. C’è una straordinaria levità, i lunghi equilibri, e quella purità adamantina; ma talvolta anche cacofonie, contrasti di ritmo, sorprese, durezze. Poiché l’incanto non è privo di disincanto e l’armonia viene dalla lucidità acuta di chi vuole e sa vedere davvero:

Dicono che c’è più luce,

più di quella che vediamo

Ma i miei occhi non sono abbastanza

aperti per vedere,

vedono soltanto

che ciò che vedono non basta.

Così queste pagine raggiungono territori e altezze che aprono in qualche modo un genere.

Vorrei che chi prende in mano questo libro, vi entrasse senza guide e corredi letterari, nudo. Vorrei che si lasciasse prendere la mano dalla magica maestria dei versi, e si potesse sentire arreso, affidato. Vorrei che attraversasse con coraggio il suo corpo calloso e si avventurasse ad occhi spalancati e buoni nell’altro emisfero del mondo. Là dove avviene il presente e l’oblio, il dolore cristallino, i baci, il revind e l’avanti veloce indifferentemente, l’assoluzione, lo zoom e la dissolvenza, il fuoco o il nulla. Il grande sorriso e l’amore.

Allora non so se sia la bellezza della poesia, o la bellezza dell’anima che la scrive. L’ampiezza che essa ha guadagnato negli anni, la libertà e la luce con cui essa, l’anima dell’Autore, spazia su queste colline, o la gioia pura che si prova leggendo.

Ma il fatto è che non si riesce a rinchiuderla in una descrizione critica, il filo scappa dalle mani e l’aquilone ci porta oltre la scrittura. Ci chiede qualcos’altro, ci insegna, o ci chiama, là dov’è il Poeta stesso con questi versi.

Insomma si apre qui un sentiero…oltre la poesia, per diventare cammino, spiritual, canto della contemplazione e del cambio di stato, la nostra materia quotidiana che ritorna spirito.

Elio Grasso

Prefazione a: La vita, e altre controfigure

Nel 1977 Adriano Spatola pubblicò nella collana Geiger Mi faranno santo, primo libretto di Valdo Immovilli, con una manciata di poesie che sbucavano sotto la porta di casa come missive senza francobollo ma con sfolgorante ironia, come si atteggiassero a ruolo di prime donne sul palcoscenico della nuova poesia cercata e ricercata in quel di Mulino di Bazzano, sede di una rivista (“Tam Tam”) dirompente e di un editore che voleva a ogni costo cambiare le carte in tavola. E sul tavolo di quella “cucina” effettivamente si raccoglievano risme di dattiloscritti, menabò, prove di stampa, fra bicchieri di vino e dolci casalinghi. Da un’altra parte, ma vicinissima, lavorava una macchina offset. Ricordiamo come lucidamente Giulia Niccolai nella prefazione presentasse l’io – la prima persona – di tutte le poesie come una specie di controfigura, una spalla dell’autore in grado di tenere testa alla realtà e di esporre, rendere pubblico, l’effetto del mondo sulla scena, sul linguaggio di chi calca il palcoscenico. Un linguaggio elementare doveroso, preciso e fulminante, come se di colpo Beckett avesse preso in mano la direzione del programma e degli eventi della realtà. O forse lo sfasamento, fra spontaneità (esibita, e dunque adatta al doppio gioco dell’interposta persona) e complessità di quel che appare, è una delle tante cose – si chiedeva Giulia – che i personaggi possono dire, anche contrastanti fra loro? Immovilli, avendo a che fare con le convenzioni, ne adotta gran parte ribaltando il gioco e rimandando al mittente serietà e ironie, consapevole di dar vita a un genere di vendetta molto personale.

Dopo alcuni anni, nel 1991 alcune di quelle poesie riapparvero in un fiammante libro il cui titolo, Parigi e le altre, sembrava annunciare al mondo che le cose a volte tornano con nuove compagnie (appunto “le altre”), e che – come nelle città – nuovi quartieri si alzano su suoli abbandonati per buone o cattive ragioni. E Marie-Louise Lentengre, straordinaria prefatrice, si permetteva di allungare il discorso svolto in precedenza lungo le traiettorie definite dallo sperimentalismo e che in Mi faranno santo erano astutamente camuffate nella “smisurata impoeticità del quotidiano”, in un confronto che dava ampia visibilità all’inquietudine di un autore labirintico, sceneggiatore di soggetti raccolti per strada e trasformati in memoria da ribaltare a (eventuali) posteri. Il ritorno sui propri passi questa volta contemplava un racconto biografico, dove la serie delle città aggiunge dettagli alla biografia, trasformando quell’io nel bagliore liberato da molteplici persone, incontrate e non, e da luoghi sfiorati o lasciati per sempre. Parigi e Venezia sono riflessi, appunto, di una scena volutamente ampliata, o quel che rimane invischiato nella memoria? Il tour, aggiunge Marie-Louise, spesso diventa “comico e desolante” perché il disincanto del poeta non si è sciolto con gli anni, anzi addirittura appare fieramente rinvigorito. Alla nostalgia, sempre in agguato, si contrasta bevendoci su: che altro fare di fronte alla sovrabbondanza delle cose, alla loro – talvolta micidiale – bellezza?

Il Novecento è finito, non senza lasciarsi dietro innumerevoli danni: tutto appare meno bello, certamente deteriorato, e nel momento in cui anche i corpi dicono la loro sul fronte della sopravvivenza, l’io torna prepotente a premere sul ventre della contemporaneità. Annuncia che respira, che vede gatti e umani intorno a sé, e lo ripete trasformando ogni poesia, ogni strofa del poemetto, in una dichiarazione d’esistenza in vita: insiste, ogni respiro è pensiero, e dunque ogni respiro trasforma l’alito in sguardo cosciente. Coscienza indubbia, il cui dovere sembra essere l’adattarsi ai conti da pagare, alle guerre presenti e future (persino alle passate), ai ricordi, alle solitudini cercando di scampare agli inciampi. Tanta preponderanza di percezione di sé deve percorrere altri sentieri per non lasciarsi ingannare dalla risacca di una poetica che sente tutto trasformato. Così come le poesie di un tempo si sono ottimizzate nel poemetto simile a un unico continuo atto di inspirazione e espirazione: azione attestante, senza dubbio, l’esistenza in vita e il pensiero di sé. E allora, inframezzati a quest’atto appaiono le cose del mondo, hanno il tempo di farsi vedere dal poeta e da noi che l’osserviamo vivere: e sono bambini, barche, biciclette, aquiloni, astronavi, nel bailamme incontenibile presente oggi sulla superficie del pianeta. In mezzo secolo il territorio percorso dallo sguardo si è ampliato a dismisura, così come il tempo ora appare all’autore nel colmo dei suoi milioni di anni e non più diviso in giornate e flash limitanti villaggi e piccole città.

Dal palcoscenico al Cinemascope c’è stato un salto di specie, tutto è passato attraverso lenti anamorfiche mutando prospettive e linee, panorami esterni al corpo invitati anch’essi alla correzione. L’abbondanza non è mai stata vantaggiosa alla specie, il nostro poeta se n’è accorto non lasciandosi sfuggire l’intento di verificare, rivedere, correggere i ricordi.

Immovilli è cambiato mentre cambiava il mondo, anche se a tratti ancora conserva i toni dell’antico teatro, facendo pensare che a torto o a ragione la realtà si è sincronizzata con certi suoi abitanti, e che si provoca da sé usando l’unico linguaggio possibile messo in campo da Valdo, perché fuori d’esso niente esiste più.

Narda Fattori
SENZA GESTI SCONNESSI

“Tutto questo senza parlare, senza gesti sconnessi
delle membra, senza emettere suoni, senza affollamenti,
senza promesse da appendere tra il fogliame
senza misure.”

 

La poesia può essere anche così, senza gesti sconnessi, dolcemente melanconica, segnata da un dolore che resta sempre, quasi sempre sottotraccia, armonica, senza attese ma non aggrappata alla memoria perché la memoria conduce a presenze che non hanno mai decretato l’assenza. L’assenza si verifica quando qualcuno non risponde più al nostro cuore, quando, senza avvederci, ha lasciato un vuoto subito colmato. Noi siamo di incontri lungo un percorso mai rettifilo e quindi cambiamo direzione, sostiamo, riprendiamo lungo la stessa via, ma qualcosa è mutato, poco o tanto e, se è vero che siamo natura, la cultura, che è la dimensione spazio-temporale che ci è stata data da vivere ci rende duttili, forte e fragili, integri e frammentati. A volte saldi, saldissimi.

Il pensiero poetico non procede per relazioni logiche ma analogiche; là dove una parola chiama altra risponde, a volte per assonanza, a volte per relazione metaforica, altre per una delle tante figure retoriche di morfologia e di sintassi. Quando il poeta scrive non è consapevole dell’attività mentale e sentimentale che si compie dentro di lui (e quando il lettore se ne avvede significa che la poesia è cerebrale, che una porta, lessico o immagine o forma, …, ha prevaricato sugli altri aspetti); la sua azione di setaccio espressivo procede per visioni e associazioni; la grande varietà espressiva della poesia lo testimonia.

Valdo Immovilli è poeta di increspature, di voli radenti, di sguardo che si ferma all’orizzonte e umilmente dice che non conosce l’oltre:

“C’è qualcosa di così grande in fondo al cuore.

Ecco, il germano reale si sta alzando in volo,

guarda, guarda, guarda… come ci porta via.”

C’è molta tenerezza nel denunciare la grandezza e l’umiltà dell’uomo; direi che è proprio attraverso ossimori che Valdo ci colpisce e giunge alla condivisione con il lettore

Niente resta incistato nei suoi versi che si aprono come la corolla di un fiore:

“Ma quando, consapevolmente, mi allontano

non è per andare via,

ma per restare più vicino.”

Questi brevi versi danno ragione di quanto ho sopra affermato relativamente all’assenza e all’uso dell’ossimoro; siamo noi, creature imperfette e colme di contraddizioni, che solo attraverso di essi possiamo dirci in un accento di verità, quando anche questa ha un sapore amaro: coglietene la tenerezza, appunto, la tenerezza che sa annientare la disperazione:

“Un vestito nuovo, le scarpe, l’asciugacapelli l’anellino,
la camicia da notte ; tutto pronto, tutto prenotato.
Senza dita tra i capelli, senza mani, senza palmi,
senza pelle, senza labbra….., senza labbra.”

Non è una persona speciale Immovilli: ama, sente, soffre, ha fame, ha sonno, non diversamente da ciascuno di noi; eppure tanta umanità non lo ferisce, né lo induce a ferire , anzi si avvicina quasi a tenderci la mano , ad affratellarci.

La profondità e la mitezza del suo sentire lo accompagna anche nella descrizione degli eventi naturali, degli animali; gli fa tenere sempre aperta una porta … per accogliere chi lo volesse avvicinare con la disponibilità del cuore.

 

Paolo Polvani

Durante tutti gli anni ’70, e anche nei decenni successivi, a tener vivo il respiro della poesia risultava fondamentale il lavoro delle riviste, un ricco numero di riviste, dai titoli fantasiosi e dalle cadenze larghissime, spesso semestrali, qualcuna addirittura annuale. Faceva eccezione Quinta generazione che giungeva puntuale ogni mese, mentre la Fiera letteraria era in edicola ogni settimana, pronta a sparare a zero su quanto si discostasse anche di un solo centimetro dalla tradizione, e ricordo una stroncatura a un libro di Rodolfo Wilcock così feroce da indurmi a comprarlo di corsa con relativo subitaneo innamoramento.

Nel ’77 o forse ’78 si tenne a Crevalcore un convegno di poesia cui partecipavano gli esponenti di molte delle riviste più battagliere di allora: sicuramente c’erano Salvo imprevisti, Tam Tam e Aperti in squarci, che sarebbe poi diventata Anterem. Fu lì che conobbi Valdo Immovilli, che allora lavorava nella redazione di Tam tam a Mulino di Bazzano a stretto contatto con Adriano Spatola e Giulia Niccolai.

Eravamo giovani e affamati di vita e di poesia, desiderosi di capire dove ci portasse, che strade nuove intendesse percorrere. Io venivo da una poesia che si dibatteva tra un’aspirazione tardo meridionalista, con l’esaltazione della fatica dei contadini, il pane e cipolla e le olive nere, e l’onda lunga della beat generation, insomma tristezza assoluta! Fu una bellissima scoperta, un respiro nuovo, una specie di illuminazione, conobbi così le folgorazioni zen di Franco Beltrametti, la genialità di Giulia Niccolai, e meravigliosi poeti come Julienn Blaine e Gerald Bisinger. E conobbi la sfolgorante ironia di Valdo Immovilli, che faceva una poesia di immediato e sicuro impatto, ritagliava frammenti di realtà improntati a una pragmatica grazia, riconoscibili in quanto ascrivibili all’esperienza comune, e al di là del testo  spalancava punti interrogativi enormi dentro i quali ai lettori veniva data la possibilità di allargare a dismisura lo spazio della poesia oppure restringerlo all’interno di quell’impoetico quotidiano di cui parla Marie Louise Lentengre nella prefazione a Parigi e le altre, secondo libro di Valdo. Ecco un esempio della sua produzione giovanile, dove sequenze veloci di immagini si offrono come frammenti di una storia tutta da immaginare e inventare:

Da tre giorni ormai vivo

a umore costante.

Vista in tram di sfuggita,

non so cos’altro avrei potuto fare.

Non mi piace il mare

e il suo ondeggiare.

Poi di nuovo sul tuo

cavallo e il posto

dove ci fermammo un giorno.

Già ti penso morbosamente

e non so cosa mettermi.

Questo ultimo, nuovo libro, “La vita, e altre controfigure” Puntoacapo editore, si apre con una interessantissima prefazione in cui Elio Grasso ripercorre le tappe del percorso poetico di Valdo, a partire da quel ”Mi faranno santo” del ’77, stampato dalle edizioni Geiger e impreziosito dalla presentazione di Giulia Niccolai.

Elio parla di “una manciata di poesie che sbucavano sotto la porta di casa come missive senza francobollo ma con sfolgorante ironia, come si atteggiassero a ruolo di prime donne sul palcoscenico della nuova poesia cercata e ricercata in quel di Mulino di Bazzano, sede di una rivista (Tam Tam) dirompente e di un editore che voleva a ogni costo cambiare le carte in tavola”.

A prima vista, alcuni testi, potrebbero sembrare ispirati dalla situazione del momento, un momento storico in cui la guerra mostra, almeno a noi europei, anche i più distratti, tutta la sua follia. Ma sappiamo per certo che questi versi, apparsi in rete, a tratti, nel corso della loro formazione, sono frutto di un lavoro che viene da lontano, e non è difficile percepirlo da una lettura che vada oltre la superficie.

“Sì, io me ne accorgo

adesso, e non so perché proprio

adesso ci penso, che si sgozzavano

atrocemente e devastavano

villaggi e città e si rubavano

le donne e le stupravano…”

Sebbene abbia fatto parte di importanti redazioni, prima di Tam Tam, poi di Steve, Valdo non è mai stato un poeta in carriera, di quelli che fanno del presenzialismo una missione e un impegno, da sempre si è interrogato e ha cercato, non solo nella poesia, di capire il senso della vita, la sua direzione.

Questo libro mette in scena le domande di una ricerca ampia, apre spazi di riflessione più che dare barlumi di risposte, schiude alcuni spiragli quando affronta il tema della bellezza che ci circonda e a volte ci sovrasta.

Possiede il ritmo di una meditazione, con quel “vivo” ripetuto in funzione anaforica a ogni inizio di testo, e l’ampiezza del respiro, il suo tranquillo ripetersi che la meditazione possiede, e riporta alla memoria la riflessione di Bifo circa il senso della poesia: “Il ritmo è la vibrazione più intima del cosmo, e la poesia è un tentativo di sintonizzarsi con la vibrazione cosmica, con la vibrazione del tempo che viene e ritorna”.

Che la poesia salverà il mondo è un pensiero suggestivo al quale nessuno può impedire di appigliarsi, sconfessato però dagli avvenimenti in corso: nonostante le sinfonie di Beethoven e di Mahler e tanti altri meravigliosi compositori le guerre non hanno mai smesso di ripetersi e per quanto la poesia ci offra ampi spazi di bellezza e spunti di riflessione, non cambierà l’animo umano e la forza distruttiva che vi si annida, e tuttavia quelli che scrivono in versi non smetteranno di crederci, e di andare in quella direzione, e l’arte continuerà a rendere il mondo più ricco e degno di essere vissuto.

Così la poesia di Valdo continua a crederci, mette in scena lo stupore di chi si interroga sulla stupidità dell’uomo che rinuncia a una vita di realizzazioni e di gioie per inseguire l’illusione del potere, del successo, della ricchezza materiale.

Anche questi versi nella semplicità, nella profondità delle domande che pongono, si aprono come mani in attesa di ricevere luce dal cielo, e propongono gli interrogativi che tutti gli uomini si pongono, e individuano un senso della vita in questa continua ricerca di risposte, in questo aggrapparsi con fiducia al cielo della poesia.

“C’è una bellezza tale qui, su questa

terra che germoglia e fiorisce

ormai da milioni di anni

e basterebbe a nutrirci tutti

e avremmo il tempo per

dare il cuore a ciò che conta.”

Questi versi potrebbero essere l’indizio di una risposta: alla stupidità umana servirebbe un’apertura degli occhi su base mondiale, rendersi conto del carattere miracoloso dell’esistenza e degli infiniti miracoli che ci circondano, e in questo la poesia si fa potente suggeritrice alternando, senza perdere il vizio dell’ironia, la banalità del quotidiano alla profondità irraggiungibile dell’esistenza.

“…Chi genera pensieri, emozioni,

nostalgie e indefinite storie.

Chi nasce oggi e da dove viene.

Io vedo a volte sorgere un’ombra

di luce, un profumo lontano.”

Ma servirebbero orecchie collettive planetarie, dove l’orlo della catastrofe che sempre più si avvicina racconta il contrario.

E la poesia, potrebbe perdere tutto ma non la speranza. Fin dall’inizio ci introduce alla meraviglia delle “piccole gemme che spuntano dai rami che sembravano secchi”. Nel susseguirsi di 32 testi legati tra loro da uno stesso cordone ombelicale, si passa dalla normalità di una colazione mattutina:

 “prendo una fetta

 di pane e ci spalmo la marmellata,

 mentre ascolto la radio e sento

 nell’aria odore di caffè.”

Alla atrocità lucida di una cronaca criminale:

“Invece, guardo la televisione

e tra una pubblicità e l’altra

di gente felice, c’è una violenza

tale, di ladri politici che rubano

e altri mafiosi che ammazzano.

O donne sgozzate in casa

da un marito. Disperati, che

uccidono persino i loro figli.”

E ancora:

“…Madri impotenti, gonfie

di paura, che abbracciano

i loro figli, che tutto salta e non

pensano a niente, che non sanno

come salvarsi che avrebbero

voluto preparare la cena

e invece saltano per aria,

massacrati, o restano senza

niente, frastornati nelle strade

piene di macerie e non capiscono

cosa sia successo, e non sanno

per quale motivo.”

Vanamente confrontata con la pur crudele immagine del Ragno:

 “…tutto questo appariva normale,

 come un ragno che prende una

 mosca nella rete e la divora…”

Per approdare a quella via d’uscita, che sgorga direttamente dalla poesia.

“    … È una notte

bellissima, il vento risveglia le

foglie e le riempie di vita. Lontano

fin dove arriva il cielo nulla

c’è di male o desiderio che non

sia pace. Tutto è pace là, da dove

veniamo. Si perde lo sguardo

disteso sull’erba, oltre le stelle.”

Sonia Tri

Quanti uomini è un uomo? Di quante controfigure potrebbe necessitare per confermare la propria esistenza?

“Io vivo” è   la sintesi complessa di accadimenti, pensieri, agi e disagi, del culto di se stesso.

Di quella arrendevolezza, cioè, alla cronaca d’insieme di ogni suo ritenere, capire e gestire, ma anche non ritenere, non capire e non gestire. Inizia come la più semplici dichiarazioni d’amore:

“Vivo: respiro, guardo,

cammino, e tutto è un palpito,”.

E nell’estasi stessa del palpito, si rafforza la capacità di un pensiero autonomo, inaspettato:

 “Pensare, ma non so cos’è

questo pensiero che penso,

questo essere qui

adesso, in questo mondo.

E provo una sensazione di

smarrimento, ansia.”

Potrebbe forse essere diversamente? Potrebbe davvero l’uomo non provare turbamento,

dinnanzi alla complessità della perfezione e dell’inganno? Nulla in lui può prescindere il tempo, lasciandolo indifferente.

“Ecco, come fa la mente

che scivola nel passato o nel futuro”.

È il paradosso umano, così come siamo chiamati a viverlo proprio ora,

tutti indistintamente. Vinti dal rovinoso martirio del plagio delle cose, degli eventi,

ma ancora capaci di un’ambizione amorosa che vinca la solitudine della morte.

“E la morte? Non è forse

un mistero la morte?

Io ci penso a volte alla morte,”

Ed è quel pensare alla fine, senza difese, l’unica risorsa di vita, che fiorisce nella poesia, dalla poesia, istantanee della natura, solenne, libera.

“Godo questo sole di piena

estate, come i papaveri tra il grano.”

E ancora:

“Che gioia, quando arriva

il vento a scarmigliare le foglie.

I rami danzano e l’erba

ondeggia fino al mare.”

L’antidoto alla morte è:

Fare amicizia con

la paura, tenerla accanto, che

non tema sé stessa, che non si

senta persa, abbandonata, “

E, ancora scrive l’autore, preso dall’onda delle emozioni:

Ma com’è adesso

ricordare, che tutto sembra

ieri e così lontano.

E c’è un dolore, come un

rimpianto o nostalgie tenere,

speranze e delusioni,

perdersi e ritrovarsi.

Come camminare nel buio

e avanzare toccando con

le mani piano piano, e ogni

tanto inciampare.

Sembra sottinteso il significato di vivere. Di abbandonarsi ad ogni rilancio spontaneo di poesia,

che certifica l’esistenza, sgravandola da ogni peso, da ogni banalità, facendone risorsa.

“Vivo, scrivo una poesia come un biglietto inserito sotto alla tua porta”:

Ma a chi è indirizzata questa poesia?  A quale amica, compagna, sorte? Il dubbio si smarrisce

Dove tante possibilità le danno nome. E’ vita, amore, speranza ritrovata, senza mai morire fino in fondo, come i bambini scampati alla guerra.

Ogni suo dubbio si scioglie; bellezza e armonia non si nascondono nel seme sterile della sconfitta.

“Tutto è pace là, da dove

veniamo. Si perde lo sguardo

disteso sull’erba, oltre le stelle.”

Immediatamente, sembra non esserci altra verità universale. L’uomo viene dalla pace, dalla perfezione sconosciuta del nulla.

Non esiste altro che sconfigga la sua precarietà terrena. Il suo protagonismo ossessionato dalla felicità di ricerca di mercato e dalla morte, equiparata a somma fine imprescindibile di tutto?

No! non è così, c’è il passaggio di un testimone. Sempre lo stesso, il solo che precluda ogni tentativo di esistenza diverso dall’amore, dalla Pace. Pace, non come ideale da perseguire, romantici di ogni tempo. Ma come luogo natale, dove fare ritorno al più presto, uomini responsabili, uomini liberi. Liberati.

 

Paolo Zanardi

I lettori che ricordano “Parigi e le altre”, pubblicato nel 1991 per le Edizioni del laboratorio, e non hanno seguito l’evoluzione letteraria di Valdo Immovilli, passata anche attraverso opere di narrativa,  leggendo “La vita e altre controfigure” potrebbero rimanere spiazzati. L’ironia amara di un tempo ha lasciato spazio a una più profonda coscienza di sé e del mondo, la ricerca ansiosa di una direzione chiara e di impossibili risposte rassicuranti si è sviluppata in pace e consapevolezza. Questa silloge può essere considerata l’opera della maturità di un poeta che, lungi dall’avere esaurito le domande da porre (e da porsi), ha costruito una solidità interiore che le inquietudini – inesauribili – non intaccano. L’evoluzione è evidente e si coglie nei versi contenuti in questa raccolta fresca di stampa pubblicata per Puntoacapo Editrice. A una lettura non attenta potrebbe sembrare che le poesie di Valdo scorrano via senza lasciare il segno, non vi è la ricerca del termine altisonante, i versi sono semplici, sembra che non occorra particolare concentrazione per entrarvi e coglierne il significato. Tuttavia, la semplicità può anche essere indice di sicurezza, di padronanza della materia, di abilità nel plasmare la parola, di capacità di fare emergere la magia dell’arte poetica senza il bisogno di nascondersi dietro vacua magniloquenza. Lungi dalla superficialità, dal diario intimo di memoria adolescenziale o da certa poesia di dubbio valore, tanto facilmente vendibile quanto di discutibile qualità. Volendo fare un raffronto con le arti figurative, paragonerei questa raccolta a uno di quei dipinti in cui il pittore, con pochi e semplici tratti di pennello apparentemente ingenui, riesce a toccare e a evocare stati d’animo inattesi. “La vita e altre controfigure” unisce intensità e spessore a leggerezza formale, temi sociali e drammaticamente attuali a una visione di ampio respiro. Dire che si tratta di un libro ottimista sarebbe impreciso e riduttivo; si potrebbe dire che è un libro capace di ispirare. Non è poco

Francesco Paolo Dellaquila

“La vita, e le altre controfigure” di Valdo Immovilli appare come una monografia del pensiero, una proclamazione plurima di sé stesso, l’esame esplicido del quesito più vecchio al mondo: “Chi siamo?”

La quasi anafora del ‘io esito, cammino, respiro,’ rimandata in più svariate sfaccettature, presuppone un continuo rapporto del proprio inconscio proposto in chiave realistica, un vaso conduttore che s’insinua profondo nelle vaste condizioni e situazioni dell’uomo e ne attinge le parti salienti. Il linguggio, semplice e chiaro, non lascia spazio all’incomprensione.

Non si discute sulla capacità del poeta di un trasporto condizionato e inevitabile con gli attuali tragici eventi che stanno affliggendo l’uomo. E lo fa con dolore profondo che va ben oltre ciò che di normale ad altri accade.

Tutta la narrazione, mai statica, si sviluppa in un panorama poetico che lascia il segno, ogni poesia lega le altre a un filo unico, mai scontato, mai noiso, anzi, alla fine par d’aver letto una lirica senza interruzioni e con il rammarico di trovarsi all’ultimo verso e dire: meglio se si fosse prolungato ancora!

Tuttavia, l’abilità conservativa di ciò che è scritto resta in ciascun lettore come un protrasi permanente e illimitato. L’opera è un contributo importante, nel vasto panorama letterario, nell’apporto di conoscenze e particolari stati d’animo che sono meriti specifici solo dei poeti.

Barletta, 09 giugno 2022